“Era una notte meravigliosa,
Una di quelle notti che forse possono esistere solo quando si è giovani.”
Rimetto il libro sullo scaffale della libreria dell’aeroporto di Milano Malpensa. Non l’ho mai letto – so così poco di Dostoevskij – ma la frase è uno stiletto. Quei piccoli lampi che ti entrano negli occhi e ti fanno vedere tutto bianco per un istante. Perchè? Non lo so.
Mancano ancora quaranta minuti all’apertura del gate, sono arrivata praticamente all’alba puntando tre sveglie dopo aver provato cosa vuol dire addormentarsi con l’ansia sull’orlo della bocca dello stomaco.
Di nuovo, non so perchè.
Dall’alto il Pais Vasco oggi mostra la sua vera faccia senza troppi luccichii: il verdegrigio dei suoi ettari incontaminati, tipico dei giorni di pioggia, le case isolate nei paesini dove tutto procede come una volta. Scendi e hai il negozio, la banca, la panetteria. Non hai bisogno di altro. Vivi in pochi metri quadrati, vivi e basta.
Quando arrivo a Gorliz piove, dormo per due ore, mangio la tortilla de patatas e dormo ancora per nove ore filate. Quando mi sveglio non mi ricordo dove mi trovo – onestamente tra le sensazioni più belle della vita.
Fuori c’è la parte selvaggia di questo paese, con l’oceano dello stesso colore del cielo. Sono tre mesi che non guardo il ciclismo dal vivo e mi è mancato. D’altronde quando dicono che ci sono amori che durano in eterno bisognerebbe crederci. Succede che ogni tanto il filo rosso che unisce le anime tira il nostro maledetto dito e noi non possiamo fare altro che girarci e dire: ah, sei tu. Abbiamo perso del tempo? Di sicuro. Ma anche la mancanza ha le sue lancette.


L’arrivo è più piatto di una pizza, entra in un paesino in cui le case sono del tipico colore di qua, così netto nella tonalità abbacinante del pomeriggio, da farle sembrare un miraggio di un viandante nel deserto: la sabbia e la luce bianca. Può arrivare un attaccante da solo su un rettilineo così? No di certo. Nell’universo parallelo che crea questo sport sì.
Mancano cinque chilometri quando Urko Berrade si stacca dalla fuga e va via da solo.
Sognatore, direbbero i romantici. Illuso, farebbero eco gli scettici.
Ma lui non si guarda indietro, il ciclismo ha i giorni in cui puoi bucare il previsto e sfociare nell’inaspettato. Sono momenti che devi prendere come quei treni che poi non ripassano. Istanti in cui le gambe devono sapere esattamente cosa fare.

Quando arriva al traguardo la sua gente lo sommerge di abbracci, senza respirare, senza nemmeno pensare. Dieci minuti dopo, quando arrivano gli altri compagni, sono felici come se avessero vinto loro stessi. Hanno le lacrime agli occhi, dicono che non ci credono, sono lontani dalle squadre che danno tutto per scontato. Si sente l’intensità, onorare la corsa come onori il tuo viaggio qui. Non puoi pensare di attraversare questo fulmine stando fermo.

Mentre guido verso l’hotel si distendono i campi arati che formano disegni ondulati sulle colline. Laggiù sembra spingersi tutto il continente, fino all’orizzonte azzurrino, fino al nulla. Bianco. Forse se arrivassimo ad avere tutto quello che vogliamo, sarebbe inutile continuare a cercare. Forse, se avessimo quella protezione che desideriamo, non ci spingeremmo così oltre.
Un attimo di vera beatitudine! È forse poco per riempire tutta la vita di un uomo?
Magnífico reportaje poético, bien hecho. 🙂